martedì 29 dicembre 2015

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lunedì 28 dicembre 2015

Non solo vantaggi dall'IVA al 5% rese da cooperative sociali e loro consorzi.

La nuova aliquota ridotta prevista dalla legge di stabilità comporta anche conseguenze sul piano economico e finanziario

La previsione di una nuova aliquota ridotta in materia di IVA presenta indiscutibili vantaggi dal punto di vista sociale. La sua introduzione comporta, tuttavia, anche delle implicazioni di carattere economico e finanziario.
La legge di stabilità 2016 ha previsto l’applicazione dell’aliquota IVA del 5% alle prestazioni di servizi di cui ai numeri 18), 19), 20), 21) e 27-ter) dell’art. 10, primo comma del Decreto IVA rese in favore dei soggetti indicati nello stesso n. 27-ter) da cooperative sociali e loro consorzi.

Secondo quanto previsto dalla direttiva IVA (direttiva 2006/112/CE), gli Stati membri applicano un’aliquota IVA normale (per l’Italia, attualmente 22%), la quale non può essere inferiore al 15%, e possono applicare una o due aliquote ridotte, la cui misura non può essere inferiore al 5%, unicamente, tuttavia, in quest’ultimo caso, con riferimento alle cessioni di beni e prestazioni di servizi elencati nell’allegato III alla stessa direttiva comunitaria.
Inoltre, in relazione a talune cessioni di beni e prestazioni di servizi è possibile utilizzare un’aliquota ridotta inferiore al minimo prescritto (vale a dire al 5%), c.d. “aliquota super-ridotta”, laddove la stessa era già prevista al 1° gennaio 1991 (c.d. clausola di “stand still”).

Al riguardo, la Corte di Giustizia Ue, nella sentenza del 28 febbraio 2012, causa C-119/11, ha chiarito che nel caso in cui a un bene o servizio si applichi un’aliquota IVA inferiore al 5% e successivamente l’aliquota relativa agli stessi venga portata al di sopra di tale soglia, non è più possibile reintrodurre la misura dell’aliquota originaria.

Ritornando alla nuova aliquota introdotta, la novità normativa fa sì che, almeno in via teorica, venga violata la disposizione di cui all’art. 98 della direttiva 2006/112/CE, la quale consente agli Stati membri di applicare soltanto una o due aliquote ridotte.
Tuttavia, come accennato in precedenza, l’aliquota IVA del 4% costituisce una aliquota “super-ridotta”, la quale dovrebbe, conseguentemente, assumere una connotazione diversa rispetto alle ordinarie aliquote ridotte.
A conferma di ciò la circostanza che anche altri Paesi europei già applicano più di due aliquote inferiori alla misura del 15% (es. Francia).

Ciò premesso, va, tuttavia, evidenziato che l’aumento del numero di aliquote IVA applicabili, comporta, oltre agli evidenti vantaggi di natura sociale, anche delle conseguenze sul piano economico e finanziario.
Ad esempio, dall’introduzione della nuova aliquota ridotta al 5% potrebbe derivare un non trascurabile effetto “emulativo”, dal momento che le diverse categorie economiche e sociali potrebbero essere da ciò incentivate a chiedere, con riferimento, naturalmente, alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi elencati nell’allegato III della direttiva 2006/112/CE, l’abbassamento dell’aliquota IVA dal 10 al 5% o, peggio ancora, dal 22 al 5%, rischiando di compromettere l’equità della distribuzione del vantaggio fiscale (potrebbe, naturalmente, accadere anche il contrario e cioè che altre operazioni passino dal 4% al 5%).

Costi di adeguamento e possibili effetti distorsivi

Inoltre, un numero elevato di aliquote IVA ridotte comporta per le aziende e le Autorità fiscali costi significativi di adeguamento alla normativa, concernenti, per queste ultime, la gestione e il controllo dell’applicazione delle aliquote ridotte, con esborsi notevoli in termini di risorse umane e finanziarie (i costi, naturalmente, sono proporzionali al numero di beni e servizi interessati dalla differenziazione delle aliquote).

Vanno, altresì, considerati i possibili effetti distorsivi sul mercato interno, fermo restando, tuttavia, che la differenziazione tra aliquote può consentire di aumentare il consumo relativo a determinati beni e/o servizi.

Va evidenziato, infine, che il prossimo anno la Commissione europea pubblicherà un piano d’azione per un regime definitivo dell’IVA, nel quale verrà valutata la possibilità di concedere una maggiore autonomia agli Stati membri nella fissazione delle aliquote, nonché il metodo per trattare le deroghe temporanee che consentono esenzioni, aliquote zero e aliquote super-ridotte, le quali dovranno essere riesaminate dopo l’introduzione del regime definitivo dell’IVA.

 

domenica 20 dicembre 2015

Con la visura camerale dell'emittente la fattura generica è deducibile

Per la Provinciale di Roma, non rileva l’omessa dichiarazione da parte dell’emittente

Gli importi afferenti ad una fattura recante una descrizione generica sono comunque deducibili se l’emittente risulta iscritto al Registro delle imprese, potendosi da ciò ragionevolmente desumere la sussistenza e l’inerenza del rapporto commerciale sotteso alla fattura, e non rilevando la mancata presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte di tale emittente. È quanto stabilito dalla C.T. Prov. di Roma, con la sentenza n. 2553/4/15.

La Cassazione ha spesso ribadito che la fattura è, di regola (salva l’ipotesi di contabilità inattendibile), documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, purché sia redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto prescritti dall’art. 21 del DPR 633/72, tra i quali l’indicazione dell’oggetto e del corrispettivo dell’operazione. Normalmente, pertanto, una regolare fattura, lasciando presumere la verità di quanto in essa rappresentato, costituisce titolo per il contribuente ai fini della deduzione del costo indicato; a fronte dell’esibizione di una tale fattura, spetta all’Ufficio dimostrare (anche attraverso presunzioni semplici) il difetto delle condizioni per la detta deduzione (ex pluris, Cass. nn. 23065/2015 e 14704/2014).

Va da sé che il principio testé riportato non vale per la fattura irregolare, ovvero per il documento che non presenta tutti i requisiti previsti dalla normativa poc’anzi richiamata, tra cui l’indicazione della “natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione”. Ciò accade, tipicamente, quando la descrizione della fattura è generica o vaga, non consentendo neppure di individuare puntualmente quale sia l’operazione sottesa.

La Cassazione ha così negato la deducibilità, per carenza del requisito di inerenza di cui all’art. 109 comma 5 del TUIR, dei costi relativi a fatture caratterizzate da genericità della descrizione della prestazione, indicata con la dicitura “con la presente vi rimettiamo fattura per consulenza tecnico-commerciale relativa al mese …” (Cass. n. 21184/2014).
Di recente, la sentenza della Cassazione n. 7214/2015 ha di nuovo negato la deducibilità dei costi afferenti a fatture caratterizzate da genericità, ancorché supportate da un contratto, ritenuto anch’esso contraddistinto da indeterminatezza, tanto che il Fisco era impossibilitato a verificare natura, quantità e congruenza del corrispettivo dei servizi prestati. Del resto, la Guardia di Finanza, con la circolare n. 1/2008, ha stabilito che, in sede di controllo, gli agenti verificatori non possono limitarsi a verificare la semplice annotazione nella contabilità di fatture riportanti la generica indicazione dell’oggetto della prestazione ricevuta, in quanto tale dato non è sufficiente a provare l’inerenza del costo all’attività dell’impresa. A tal fine, è ulteriormente necessaria l’esistenza di un documento che attesti la ragione giuridica dell’operazione per la quale è stata emessa la fattura.

In sostanza, si potrebbe concludere che la genericità della fattura costituisce un elemento presuntivo a favore del Fisco, che, sulla base di ciò, può disconoscere la deduzione del relativo costo, ponendo a carico del contribuente l’onere di dimostrare, mediante l’ostensione di ulteriore materiale documentale probatorio, la sussistenza del titolo giustificativo dell’operazione oggetto di fatturazione, alla luce del principio di inerenza già sopra menzionato.

Con la pronuncia di merito in commento, i giudici romani hanno accolto la prova presuntiva fornita dal contribuente circa la sussistenza e l’inerenza del rapporto commerciale sotteso alla “generica” fattura contestata, ovvero l’iscrizione al Registro delle imprese del soggetto che aveva emesso la fattura, emittente che, peraltro, non aveva presentato alcuna dichiarazione dei redditi e col quale neppure era stato sottoscritto un contratto.

Se è ben vero che un contratto scritto non sempre è necessario e, come nel caso di specie, quando trattasi di rapporti occasionali, non di frequente viene predisposto, è tuttavia opportuno evidenziare che la prassi di munirsi di tali contratti è certamente opportuna, tanto più ai fini fiscali, e soprattutto quando le operazioni commerciali, così come in questo caso, consistano in prestazioni di servizi ed, in particolare, in provvigioni per mediazioni. I contratti, infatti, possono fornire un buon supporto documentale probatorio (specie se aventi data certa) per la deducibilità dei costi.

Riguardo, infine, alla decisione per cui sarebbe sufficiente l’iscrizione alla Camera di commercio da parte dell’emittente la fattura, unitamente al pagamento della stessa, per integrare il requisito di certezza ed inerenza del relativo costo, tanto da consentirne la deducibilità, è opportuno evidenziare che tale motivazione potrebbe essere non conforme ai principi sanciti dalla Suprema Corte e sopra evidenziati, tanto più che i giudici di merito non argomentano per quale ragione tale iscrizione sia idonea a far presumere l’esistenza e l’inerenza del rapporto commerciale sotteso al documento di spesa, quando è noto che le fatture ed i pagamenti e gli altri elementi formali delle operazioni commerciali sono sempre presenti in caso – ad esempio – di operazioni inesistenti (ex pluris, Cass. n. 10793/2015, in cui si fa proprio riferimento all’irrilevanza di elementi formali, quali le visure camerali che attestino l’esistenza del soggetto emittente).

 

LOCAZIONI: Mini canoni in cerca del «salvataggio»

Con un emendamento alla legge di stabilità il legislatore prova a reinserire la disciplina dichiarata incostituzionale

Un emendamento al Ddl. di stabilità riporta in auge i “mini canoni” di locazione (pari al triplo della rendita catastale) che erano stati pagati dai conduttori che avevano registrato contratti “in nero” facendo applicazione della disciplina recata dall’art. 3 commi 8-9 del DLgs. 23/2011, poi dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 50/2014 della Consulta.

L’avvicendamento di norme e pronunce di incostituzionalità rende opportuno un breve riassunto della vicenda.
Tutto è cominciato quando, allo scopo di incentivare i conduttori a registrare i contratti di locazione “in nero”, l’art. 3 comma 8 del DLgs. 23/2011 ha previsto che, in ipotesi di registrazione del contratto di locazione non precedentemente registrato nei termini, dovesse trovare applicazione una disciplina molto favorevole per il conduttore, secondo la quale il contratto di locazione avrebbe avuto durata di 4 anni, dal momento della registrazione, con rinnovo tacito di altri 4 anni, e il conduttore avrebbe dovuto pagare un canone di locazione pari solo al triplo della rendita catastale, tenendo conto dell’aggiornamento ISTAT solo dal secondo anno.

Tale disposizione, tuttavia, viene dichiarata incostituzionale per eccesso di delega con la sentenza n. 50/2014 (si veda “Incostituzionali le sanzioni «indirette» per le locazioni non registrate” del 15 marzo 2014).
La dichiarazione di incostituzionalità, tuttavia, crea alcune difficoltà in relazione ai contratti di locazione registrati sulla base della norma abrogata: infatti, il conduttore aveva pagato un canone inferiore a quello contrattuale, sicché risultava inadempiente, perché la norma che legittimava tale misura del canone era ormai abrogata.

Poco dopo, il legislatore, con l’art. 5 comma 1-ter del DL 47/2014 (conv. L. 80/2014), ha introdotto una previsione di “salvezza” dei rapporti scaturiti dai contratti di locazione “regolarizzati” ex art. 3 comma 8 del DLgs. 23/2011, facendo “salvi gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti”, fino al 31 dicembre 2015. 

Ma anche questa  norma è stata dichiarata incostituzionale con la sentenza 16 luglio 2015 n. 169, perché in contrasto con l’art. 136 Cost., in quanto è da escludere che il legislatore possa “salvare” gli effetti della disposizione dichiarata incostituzionale, ponendo nel nulla, in tal modo, gli effetti della pronuncia di incostituzionalità (“Incostituzionale la norma che salva i «mini canoni» fino al 31 dicembre 2015” del 17 luglio 2015).

Chi ha pagato il canone ridotto risulta inadempiente

Il problema dei canoni pagati dai conduttori nel periodo intercorrente tra il 7 aprile 2011 e il 16 luglio 2015, tuttavia, resta.

Per questo motivo, il legislatore torna ad occuparsi della questione con un emendamento alla legge di stabilità.
A norma della nuova disposizione, per i conduttori che, nel periodo intercorrente tra il 7 aprile 2011 (data di entrata in vigore del DLgs. 14 marzo 2011 n. 23) e il 16 luglio 2015 (data della pronuncia della Corte Costituzionale n. 169/2015), hanno versato il canone di locazione nella misura “ridotta” disposta dall’art. 3 comma 8 del DLgs. 23/2011, l’importo del canone dovuto (ovvero dell’indennità di occupazione maturata), su base annua, è pari al triplo della rendita catastale.

In poche parole, quindi, il legislatore “riabilita” i mini canoni dichiarati incostituzionali, limitatamente al periodo in cui essi sono stati corrisposti.

 

sabato 19 dicembre 2015

Integrativa entro i 90 giorni con sanzione di 258 euro

Un comunicato stampa delle Entrate «chiarisce» l’annosa questione della dichiarazione infedele sanata entro 90 giorni

Varie volte abbiamo evidenziato che, secondo l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate, la dichiarazione infedele sanata entro i 90 giorni è equiparata a una dichiarazione tardiva (circ. 12 marzo 2010 n. 11 § 3.2).

Allora, se il contribuente ha omesso di dichiarare ricavi nel modello UNICO 2015 e si ravvede entro il 29 dicembre, deve presentare la dichiarazione integrativa e versare i 25 euro, pagare le imposte, gli interessi legali e le sanzioni ridotte per i tardivi pagamenti per le imposte da versare a saldo e, eventualmente, in acconto.
Abbiamo anche evidenziato che, per effetto della L. 190/2014, la tesi non sarebbe, a livello sistematico, più stata sostenibile. Infatti, il legislatore, nella “nuova” lettera a-bis) dell’art. 13 del DLgs. 472/97, ha disciplinato il ravvedimento di violazioni, dichiarative e non, sanate entro i 90 giorni, con riduzione a 1/9 del minimo della sanzione.

Trattandosi di dichiarazione infedele, allora, sebbene ciò sia pregiudizievole nei confronti del contribuente, ne poteva derivare la necessità di pagare imposte, interessi legali e sanzioni del 100% ridotte a 1/9.
Certo, si tratta di una soluzione assolutamente incoerente (e per questo, in sostanza, rigettata dalla circolare della Fondazione Nazionale dei commercialisti dello scorso luglio 2015), visto che, alla fine, rende conveniente omettere in toto la dichiarazione.

Ecco che l’Agenzia delle Entrate, con un comunicato stampa diramato ieri, in maniera a dir poco “salomonica”, risolve la questione.
Prima, si afferma che la tesi pregressa non ha più ragione di esistere: in effetti, se si affermasse il contrario, la “nuova” lettera a-bis) sarebbe priva di significato.
A questo punto, per tutelare il contribuente, c’è un vero e proprio colpo di scena: la dichiarazione infedele sanata nei 90 giorni viene equiparata ad una dichiarazione inesatta, quindi il ravvedimento va fatto riducendo a un nono la sanzione di 258 euro, arrivando a pagare così 28 euro (la norma di riferimento non è quella sulla dichiarazione infedele, nonostante di dichiarazione infedele si tratti, ma l’art. 8 del DLgs. 471/97, sulla dichiarazione inesatta; ove, rammentiamo, all’inizio della norma il legislatore aveva sentito, già nel 1997, l’esigenza di specificare che si deve trattare di ipotesi non rientranti nella dichiarazione infedele).

Occorrerebbe interrogarsi sul nesso che c’è, dal punto di vista tecnico, tra dichiarazione infedele presentata nei 90 giorni e dichiarazione inesatta. 

Nulla muta per la dichiarazione tardiva

In ogni caso, non rimane che accogliere con favore il comunicato stampa, in assenza del quale i contribuenti sarebbero stati oltremodo pregiudicati.
Sul versante operativo, in base a quanto detto nel comunicato stampa medesimo, entro il 29 dicembre 2015:
- è possibile sia sanare la tardiva dichiarazione (pagando 25 euro), sia la dichiarazione infedele (pagando 28 euro);
- bisogna, a seconda dei casi, presentare la dichiarazione omessa o ripresentare la dichiarazione correttamente;
- occorre pagare le imposte, gli interessi legali e le sanzioni da tardivo versamento ridotte.

Alla fine del comunicato, confermando, implicitamente, che si tratta di una tesi “salomonica”, si afferma che se il ravvedimento sulla dichiarazione infedele avviene spirati i 90 giorni, di fatto riemerge la “vera” violazione da dichiarazione infedele.
Dunque, aggiungiamo noi, pare il ravvedimento debba avvenire ripresentando la dichiarazione, pagando le imposte, gli interessi legali e le sanzioni del 90% (per effetto della riduzione del DLgs. 158/2015) ridotte, a seconda delle ipotesi, a 1/8, 1/7 o 1/6.

Ma, a ben vedere, potremmo pure credere davvero nella metamorfosi che, secondo la tesi descritta, interessa le violazioni dichiarative, non facendola svanire dopo i 90 giorni. Allora, perché non ravvedersi sine die pagando la sanzione da 258 euro ridotta a 1/8, 1/7 o 1/6?
È chiaro che si tratta di un’asserzione provocatoria, strumentale a un monito per il legislatore, che dovrebbe valutare l’opportunità di disciplinare, una volta per tutte, la sanzione per la dichiarazione infedele sanata entro i 90 giorni.

 

Responsabilità dei debiti solidale con plurime cessioni d'azienda

La responsabilità patrimoniale del cedente e del cessionario ha tale natura in relazione ai rapporti con i terzi creditori

In materia di trasferimento di azienda, non esiste una disciplina ad hoc circa la responsabilità dei debiti aziendali nel caso in cui si verifichino plurime cessioni di azienda (o di ramo di azienda) e, pertanto, la soluzione circa la sorte delle pretese creditorie, in tali casi, non è di immediata definizione. Per poter individuare i soggetti responsabili occorre, innanzitutto, illustrare la disciplina prevista per la singola cessione di azienda.

La norma che regola la sorte dei debiti aziendali, in caso di cessione di azienda, è l’art. 2560 c.c., il quale statuisce, al comma 1, che l’alienante non è liberato dai debiti inerenti l’esercizio dell’azienda ceduta (a patto che i creditori non abbiano acconsentito) e, al comma 2, che, nel trasferimento di un’azienda commerciale, l’acquirente risponde dei debiti esclusivamente se questi risultano dai libri contabili obbligatori.
L’art. 2560 c.c. realizzerebbe un accollo cumulativo ex lege, circa i debiti pregressi risultanti dai libri contabili e inerenti alla gestione dell’azienda ceduta (o del ramo di azienda ceduto), sancendo, di fatto, una responsabilità solidale tra alienante e acquirente, ex art. 2560 comma 2 c.c., che può essere esclusa nel solo caso in cui il creditore vi consenta (accollo liberatorio), ex art. 2560 comma 1 c.c., (cfr. Cass. 29 aprile 1998 n. 4367).
La norma escluderebbe la responsabilità dell’alienante per i debiti successivi al trasferimento, che sorgano direttamente a carico del soggetto acquirente, nuovo proprietario dell’azienda così trasferita.

Occorre precisare che la natura solidale della responsabilità patrimoniale del cedente e del cessionario attiene esclusivamente ai rapporti con i terzi creditori. Infatti, la giurisprudenza di legittimità (Cass. 22 dicembre 2004 n. 23780) è orientata nel ritenere che tra le parti non operi alcun tipo di solidarietà, trattandosi di obbligazioni esclusive dell’uno o dell’altro contraente, a seconda delle pattuizioni previste nel contratto di cessione d’azienda. Pertanto, se le parti non stabiliscono diversamente, il debitore effettivo resta l’alienante, nei cui confronti può rivalersi in via di regresso l’acquirente che abbia pagato, quale coobbligato in solido, un debito pregresso dell’azienda.

In breve, secondo la giurisprudenza, nei rapporti interni vige il principio per cui, salvo patto contrario, ciascuno dei contraenti risponde dei debiti che afferiscono alla propria gestione. In tali pronunce, si legge, infatti, che la previsione circa la solidarietà dell’acquirente per il pagamento dei debiti relativi all’azienda ceduta “non determina alcun trasferimento della posizione debitoria sostanziale, in quanto il debitore effettivo rimane pur sempre colui al quale è imputabile il fatto costitutivo del debito, ossia il venditore” (Cass. n. 23780/2004).

L’“acquirente finale” dovrà rispondere delle passività aziendali

Alla luce di quanto sopra evidenziato, è ragionevole affermare che, anche nel caso di plurime cessioni di azienda, possa trovare applicazione tra le parti il principio della responsabilità solidale nei confronti dei terzi creditori, mentre, nei rapporti interni, ciascuna parte continuerà a rispondere dei debiti che afferiscono alla propria gestione.
Pertanto, in virtù del principio di responsabilità solidale, saranno garantite le pretese dei terzi creditori (e, dunque, anche dei creditori del “primo cedente”, in riferimento ai crediti inerenti l’esercizio dell’azienda), mentre “l’acquirente finale” sarà tenuto a rispondere delle passività aziendali risultanti dai libri contabili obbligatori, salvo poi diritto di rivalersi nei confronti della parte che le ha effettivamente contratte.

Una lettura formale dell’art. 2560 comma 1 c.c. sembrerebbe consentire al terzo creditore, anche nel caso di successiva cessione di azienda, di rivolgersi all’originario cedente, per quanto concerne i debiti che egli ha contratto durante il suo esercizio d’azienda. Infatti, l’art. 2560 c.c. sembra affermare il permanere in capo ad esso della responsabilità per i debiti sorti per effetto della sua gestione, a prescindere dalle ulteriori vicende traslative che coinvolgano l’azienda.
Più complessa pare la valutazione circa la possibilità per il terzo creditore di rivolgersi al “primo cessionario” e al “cessionario finale”. Il secondo comma dell’art. 2560 c.c. sembrerebbe, infatti, autorizzare il terzo creditore a chiedere il soddisfacimento delle proprie pretese all’acquirente finale, ove i debiti risultino dai libri contabili obbligatori e siano anteriori al trasferimento, atteso che questi è l’effettivo titolare dell’azienda su cui ancora “gravano” i debiti.

Resta dubbia, invece, la possibilità che il terzo creditore possa vantare pretese nei confronti del “primo cessionario”, in quanto quest’ultimo non sembrerebbe, di fatto, potersi qualificare né come alienante ex art. 2560 comma 1 c.c., né come attuale acquirente dell’azienda ex art. 2560 comma 2 c.c.

 

Sanzionati i professionisti senza POS

In base a un emendamento al Ddl. di stabilità tutti i pagamenti dovranno essere consentiti tramite «carte»

Ben presto i professionisti saranno tenuti non solo ad accettare pagamenti effettuati tramite carte di debito, munendosi del necessario POS (Point Of Sale), ma anche tramite carte di credito, ciò a prescindere dagli importi e rischiando, altrimenti, sanzioni pecuniarie. Sono queste le rilevanti novità previste da un emendamento al Ddl. di stabilità 2016 approvato in Commissione Bilancio della Camera.

Ricordiamo che, ai sensi dell’art. 15 comma 4 del DL 179/2012, dal 30 giugno 2014, i soggetti che effettuano l’attività di vendita di prodotti e di prestazione di servizi, anche professionali, sono tenuti ad accettare anche pagamenti effettuati attraverso carte di debito. Sono in ogni caso fatte salve le disposizioni del DLgs. 231/2007. In base al comma successivo, inoltre, è stabilito che, con uno o più decreti del Ministro dello Sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’Economia, sentita la Banca d’Italia, vengono disciplinati gli eventuali importi minimi, le modalità e i termini, anche in relazione ai soggetti interessati, di attuazione della disposizione di cui al comma precedente. Con i medesimi decreti può essere disposta l’estensione degli obblighi a ulteriori strumenti di pagamento elettronici anche con tecnologie mobili.

In attuazione di tale ultima disposizione, il DM 24 gennaio 2014 ha precisato che l’obbligo di accettare pagamenti effettuati attraverso carte di debito si applica a tutti i pagamenti di importo superiore a 30 euro disposti a favore di imprese o professionisti. In sede di prima applicazione, e fino al 30 giugno 2014, l’obbligo di cui sopra si è applicato limitatamente ai pagamenti effettuati per lo svolgimento di attività di vendita di prodotti e prestazione di servizi il cui fatturato dell’anno precedente a quello nel corso del quale era effettuato il pagamento risultava superiore a 200.000 euro (art. 2 del DM). In base al successivo art. 3 del DM, inoltre, con successivo decreto, da emanarsi entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del primo (fine giugno 2014), ma mai intervenuto, sarebbe stato possibile individuare nuove soglie e nuovi limiti minimi di fatturato e disporre l’estensione degli obblighi a ulteriori strumenti di pagamento elettronici anche con tecnologie mobili.

Al di là delle incertezze che hanno caratterizzato la prima fase di vigenza della norma – con la proroga dal 1° gennaio al 30 giugno 2014 disposta dall’art. 9 comma 15-bis del DL 150/2013 – e superato lo scoglio rappresentato dalla richiesta di annullamento e sospensione presentata dal Consiglio nazionale degli Architetti (respinta dall’ordinanza n. 1932/2014 del TAR del Lazio), resta non solo la precisazione secondo la quale la nuova disciplina si applica a tutti i pagamenti di importo superiore a 30 euro, ma, soprattutto, la questione attinente alla natura dell’adempimento: obbligo giuridico o mero onere?

Il Consiglio nazionale forense, nella circolare n. 10-C-2014, ha precisato che la disposizione in parola introduce un mero onere, con campo di applicazione necessariamente limitato ai casi nei quali siano i clienti a richiedere di potersi liberare dall’obbligazione pecuniaria a proprio carico per il tramite di carta di debito. Nessuna sanzione è, infatti, prevista in caso di rifiuto di accettare il pagamento tramite carta di debito. Questa impostazione, fatta propria anche dalla Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro nella circolare n. 12/2014, è stata confermata da una risposta, fornita dal Sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, all’interrogazione n. 5-02936 in Commissione Finanze alla Camera.
Secondo una parte della dottrina, peraltro, già attualmente si sarebbe in presenza di un obbligo giuridico.

Su tali profili interviene ora l’emendamento citato in premessa. Esso, da un lato, rivedendo l’art. 15 comma 4 del DL 179/2012, impone l’accettazione dei pagamenti non solo tramite carte di debito, ma anche con carte di credito (salvi i casi di oggettiva impossibilità tecnica), e, dall’altro, modificando l’art. 15 comma 5 del DL 179/2012, sopprime qualsiasi riferimento a eventuali importi minimi e precisa che i DM attuativi dovranno prevedere, accanto alle modalità e ai termini di attuazione della previsione normativa, anche le fattispecie costituenti illecito e l’importo delle relative sanzioni amministrative pecuniarie.
Tali determinazioni regolamentari, peraltro, stante l’estrema genericità delle indicazioni della norma precettiva primaria, sembrano in contrasto con il principio di riserva di legge di cui all’art. 1 della L. 689/81 (cfr., tra le altre, Cass nn. 1043/2015 e 21952/2014).

Al fine di promuovere tali operazioni di pagamento, in particolare per importi contenuti (ovvero inferiori a 5 euro), poi, si prevede l’adozione, entro il 1° febbraio 2016, di un DM attuativo del Regolamento UE n. 751/2015.
I soggetti che intervengono nell’effettuazione di pagamenti tramite carta, infine, dovranno applicare le regole e le misure, anche contrattuali, necessarie ad assicurare l’efficace traslazione degli effetti delle disposizioni del DM, tenuto conto della necessità di assicurare trasparenza, chiarezza ed efficienza della struttura delle commissioni e della loro stretta correlazione e proporzionalità ai costi effettivamente sostenuti, nonché di promuovere l’efficienza dei circuiti e degli schemi di riferimento delle carte nel rispetto delle regole di concorrenza e dell’autonomia contrattuale delle parti.

 

On line le istruzioni del 730/2016

Le principali novità riguardano i redditi di lavoro dipendente, i redditi fondiari e gli oneri detraibili

Bonus di 80 euro a regime, indicazione del codice identificativo del contratto di locazione registrato, proroghe delle detrazioni “maggiorate” per i lavori di recupero edilizio e di riqualificazione energetica, aumento della detraibilità delle erogazioni liberali alle ONLUS, inserimento della comunicazione dell’amministratore di condominio. Sono queste le principali novità che emergono dalla bozza delle istruzioni per la compilazione del modello 730/2016, rese disponibili ieri sul sito dell’Agenzia delle Entrate, quasi due settimane dopo la pubblicazione della bozza del modello.

Con il 730/2016, relativo al periodo d’imposta 2015, entra a regime il bonus IRPEF di 80 euro al mese, spettante ai lavoratori dipendenti e ad alcune categorie assimilate, con un reddito complessivo non superiore a 26.000 euro. L’importo totale massimo del bonus, infatti, passa dai 640 euro del 2014 (in cui si è applicato per otto mesi, da maggio a dicembre), ai 960 euro del 2015, considerando quindi tutti i dodici mesi dell’anno.

Dal 2015, per verificare il rispetto del limite di 26.000 euro, occorre:
- aggiungere all’importo del reddito complessivo, determinato ai fini IRPEF, l’ammontare della quota di reddito esente prevista per i ricercatori e per i lavoratori rientrati in Italia;
- sottrarre l’ammontare delle somme erogate a titolo di “TFR in busta paga”.

La legge di stabilità 2015 ha infatti introdotto la possibilità, per i lavoratori dipendenti del settore privato con un rapporto di lavoro in essere da almeno sei mesi, di optare per la liquidazione mensile del TFR come parte integrativa della retribuzione, che concorre alla formazione del reddito complessivo IRPEF tassato in via ordinaria.
È stato invece eliminato il rigo C4 relativo all’applicazione dell’imposta sostitutiva del 10% alle somme erogate ai dipendenti del settore privato per l’incremento della produttività del lavoro, poiché l’agevolazione non è stata prorogata per il 2015.

Restando nell’ambito del reddito di lavoro dipendente, si segnala altresì:
- l’incremento da 6.700 a 7.500 euro dell’importo non imponibile del reddito di lavoro dipendente dei c.d. “lavoratori frontalieri” (solo il reddito eccedente concorre a formare il reddito complessivo);
- l’esenzione fino a 6.700 euro per i redditi di lavoro dipendente e di pensione prodotti in euro dai soggetti residenti a Campione d’Italia (solo l’importo eccedente concorre a formare il reddito complessivo).

Nell’ambito della fiscalità immobiliare, invece, le principali novità riguardano:
- i redditi dominicale e agrario dei terreni, che devono essere ulteriormente rivalutati del 30% in luogo del 15% relativo al 2014; l’ulteriore rivalutazione si applica nella misura del 10% nel caso di terreni agricoli o non coltivati, posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali (IAP) iscritti nella previdenza agricola (in luogo del 5% del 2014);
- l’indicazione dei dati relativi ai contratti di locazione (sezione II del quadro B); i campi relativi all’indicazione degli estremi di registrazione del contratto di locazione devono essere compilati solo se il contratto è stato registrato presso l’Ufficio e nella copia del modello di richiesta di registrazione restituito dall’Ufficio non è indicato il codice identificativo del contratto; se, invece, il contratto di locazione è stato registrato tramite Siria, Iris, Locazioni web o Contratti on line, oppure tramite il nuovo modello RLI, deve essere indicato, nel nuovo apposito campo, il codice identificativo del contratto, composto da 17 caratteri, reperibile nella ricevuta di registrazione telematica (o, eventualmente, nella copia restituita dall’Ufficio).

Trovano inoltre spazio nel modello 730/2016 le proroghe per il 2015 della detrazione del:
- 50% per le spese relative a interventi di recupero del patrimonio edilizio;
- 50% per le spese sostenute per l’acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici di classe non inferiore alla A+, finalizzati all’arredo dell’immobile oggetto di ristrutturazione;
- 65% per le spese relative agli interventi finalizzati al risparmio energetico degli edifici; la detrazione è riconosciuta anche per le spese sostenute per l’acquisto e la posa in opera di impianti di climatizzazione invernale dotati di generatori di calore alimentati da biomasse combustibili e di schermature solari (tende esterne, chiusure oscuranti e altri dispositivi di protezione solare in combinazione con vetrate);
- 65% per gli interventi relativi all’adozione di misure antisismiche, su edifici ricadenti nelle zone sismiche ad alta pericolosità.

In relazione agli oneri detraibili, ulteriori novità riguardano:
- l’importo massimo delle erogazioni liberali a favore delle ONLUS che possono beneficiare della detrazione del 26%, che si incrementa da 2.065 a 30.000 euro annui;
- la detrazione del 19% delle spese per la frequenza di scuole dell’infanzia, del primo ciclo di istruzione e della scuola secondaria di secondo grado, in relazione ad un importo annuo non superiore a 400 euro per alunno o studente.

Nel quadro G, relativo ai crediti d’imposta, sono stati inseriti i campi destinati al:
- credito d’imposta pari al 65% delle erogazioni liberali in denaro effettuate in favore di tutti gli istituti del sistema nazionale di istruzione, per la realizzazione di nuove strutture scolastiche, la manutenzione e il potenziamento di quelle esistenti e per il sostegno a interventi che migliorino l’occupabilità degli studenti (c.d. “School bonus”); peraltro, uno degli emendamenti al disegno di legge di stabilità 2016, in corso di approvazione alla Camera, potrebbe posticipare di un anno la decorrenza del credito d’imposta in esame;
- credito d’imposta per i compensi corrisposti agli avvocati abilitati nel procedimento di negoziazione assistita, oppure agli arbitri, per un importo massimo di 250 euro.

Novità assoluta il nuovo quadro K, che deve essere utilizzato dall’amministratore di condominio per comunicare all’Agenzia delle Entrate:
- i dati catastali del condominio oggetto di interventi edilizi sulle parti comuni, per i quali spetta la detrazione IRPEF del 50%;
- l’elenco dell’ammontare dei beni e dei servizi acquistati dal condominio stesso ed i dati identificativi dei relativi fornitori.
Per i contribuenti che sono amministratori di condominio ma che possono utilizzare il modello 730/2016, in quanto non svolgono l’attività in forma professionale, non sarà quindi più necessario presentare, in aggiunta al modello 730, il quadro AC del modello UNICO PF (che viene ridenominato quadro RK nel modello UNICO 2016).
La compilazione del quadro K va indicata barrando l’apposita casella che è stata inserita nel frontespizio del modello 730/2016.

 

Le assegnazioni agevolate conquistano le ipocatastali fisse

Un apposito emendamento approvato in Commissione rimuove le penalizzazioni per le attribuzioni di fabbricati strumentali

Con l’approvazione di un apposito emendamento da parte della Commissione Bilancio della Camera al Ddl. di stabilità, su cui la discussione generale in Aula dovrebbe iniziare oggi a partire dalle 14, viene modificato il regime delle imposte indirette previsto per le assegnazioni e le cessioni agevolate dei beni ai soci.
La novità riguarda l’applicazione generalizzata delle imposte ipotecaria e catastale in misura fissa: se la modifica verrà confermata in sede di approvazione definitiva della manovra, essa si tradurrà in un impulso molto forte alle assegnazioni e alle cessioni aventi ad oggetto gli immobili strumentali.

Per comprendere la portata della nuova norma occorre ricordare come nella versione originaria del disegno di legge di stabilità venisse specificato che, per le assegnazioni e le cessioni soggette all’imposta di registro proporzionale (e solo per queste), le aliquote si intendevano ridotte al 50% e le imposte ipotecaria e catastale erano dovute in misura fissa.

Ciò detto, per gli immobili a destinazione abitativa, è dovuta l’IVA (senza sconti) se a cedere o ad assegnare è l’impresa costruttrice (obbligatoriamente se l’immobile è stato costruito da non oltre cinque anni, per opzione se è stato costruito da oltre cinque anni).
Le operazioni avvengono, invece, in esenzione IVA se l’immobile di civile abitazione è attribuito al socio dall’impresa costruttrice che non abbia esercitato l’opzione per l’imponibilità o (è questo il caso probabilmente più frequente) da società diverse da quella costruttrice; in questi casi, l’imposta di registro è dovuta nella misura del 4,5% (il 50% della misura ordinaria), ovvero dell’1% (il 50% del 2%) se il socio assegnatario può beneficiare dell’agevolazione “prima casa”.
In ogni caso, per le assegnazioni di immobili abitativi le imposte ipotecaria e catastale sono comunque fisse, per cui l’agevolazione non esplica effetti.

Per quanto riguarda, invece, le operazioni che hanno ad oggetto i fabbricati strumentali, vi sono alcune differenze. In primo luogo esse, se poste in essere da soggetti diversi dall’impresa costruttrice, possono scontare l’IVA a seguito dell’opzione; in secondo luogo, le imposte ipotecaria e catastale sono ordinariamente dovute nella misura rispettiva del 3% e dell’1% (e ciò che la cessione o l’assegnazione siano esenti piuttosto che imponibili).

Vi sono, poi, operazioni che coinvolgono immobili (abitativi piuttosto che strumentali) acquisiti senza l’addebito dell’IVA “a monte” (ad esempio perché acquistati da un privato, o prima del 1973): in queste situazioni il regime dell’assegnazione e quello della cessione divergono, in quanto mentre nel secondo caso si applicano le regole sopra riassunte, l’assegnazione avviene invece fuori campo IVA, con imposte di registro, ipotecaria e catastale proporzionali (ciò, è bene ribadirlo, non tenendo conto delle norme agevolative).

Tornando alle modifiche introdotte dal recente emendamento, prima di esso le operazioni agevolate potevano beneficiare delle imposte ipocatastali fisse solo nei casi di imposta di registro proporzionale (di fatto, nella maggior parte delle operazioni che coinvolgono immobili a destinazione abitativa, nonché nelle assegnazioni aventi ad oggetto immobili abitativi e strumentali acquisiti senza addebito dell’IVA); diversamente, nelle operazioni con registro fisso (di fatto, la maggior parte delle attribuzioni di immobili strumentali), esse avrebbero dovuto essere assolte nelle misure ordinarie del 3% e dell’1%.

In origine imposte dovute nella misura del 4%

Con l’approvazione dell’emendamento in esame queste penalizzazioni vengono invece rimosse, prevedendosi in ogni caso la misura fissa delle imposte ipocatastali dovute nell’ambito dell’assegnazione o della cessione agevolata. Il beneficio è tanto più evidente se si pensa che, in assenza di una deroga esplicita da parte delle stesse norme agevolative, la base imponibile dell’imposta di registro (e, di riflesso, delle ipocatastali) è il valore venale del bene, e non il suo valore catastale (il quale trova applicazione solo per le attribuzioni di immobili abitativi a persone fisiche non imprenditori).

Fatto, ad esempio, in 800.000 euro il valore venale di un fabbricato strumentale, prima delle modifiche in commento l’operazione scontava ipocatastali per complessivi 32.000 euro, oltre ai 200 euro di imposta fissa di registro; con le modifiche, invece, tutta l’operazione si risolve in un onere complessivo di 600 euro (tre imposte fisse); è presumibile che anche l’IVA non sia dovuta, in quanto la maggior parte delle operazioni verranno mantenute nel regime naturale di esenzione, fatti salvi i casi in cui la rettifica della detrazione IVA possa consigliare, o di fatto imporre, l’opzione per l’imponibilità.

 

L'imposta estera entra nella fattura italiana

Per l’acquisto di un servizio dagli USA, nella base imponibile IVA si computa anche la «sales tax»

Nell’ipotesi in cui un’impresa italiana riceva un servizio generico da un’impresa americana può trovarsi addebitata la “sales tax” statunitense nella fattura di acquisto.

In assenza di chiare indicazioni al riguardo, potrebbe sorgere il dubbio se l’imposta estera sulle vendite debba essere computata o meno nella base imponibile IVA da parte del soggetto passivo italiano che riceve la prestazione di servizi.
Difatti, in presenza di un’operazione qualificabile dal punto di vista oggettivo come “prestazione di servizi” ai sensi dell’art. 3 del DPR 633/72, territorialmente rilevante in Italia ai sensi dell’art. 7-ter comma 1 lett. a) del DPR 633/72, si rende applicabile l’imposta sul valore aggiunto. Inoltre, se l’acquirente è un soggetto passivo italiano, l’IVA è assolta mediante emissione di autofattura, secondo il meccanismo del reverse charge ex art. 17 comma 2 del DPR 633/72.

Per determinare la base imponibile dell’operazione agli effetti dell’IVA deve farsi riferimento all’art. 13 comma 1 del DPR 633/72.
La norma si limita a contemplare, nella base imponibile, oltre al corrispettivo, anche “gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione” della prestazione. La disposizione comunitaria di riferimento (art. 78, par. 1, lett. a) della direttiva 2006/112/CE) è, invece, più ampia di quella nazionale, ricomprendendo nella base imponibile anche “le imposte, i dazi, le tasse e i prelievi, ad eccezione della stessa IVA”.

Stando all’interpretazione della giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di Giustizia Ue 20 maggio 2010, causa C-228/09, Commissione vs. Polonia), la condizione “affinché imposte, dazi, tasse e prelievi possano rientrare nella base imponibile dell’IVA, pur non rappresentando un valore aggiunto e non costituendo il corrispettivo economico della prestazione di servizi” è la sussistenza di un “collegamento diretto con tale prestazione”.
Sul punto, la Corte di Giustizia Ue ha successivamente specificato (sentenza 5 dicembre 2013, cause riunite C-618/11, C-637/11 e C-659/11, TVI) che è sussumibile nella nozione di “imposte, dazi, tasse e prelievi” di cui all’art. 78 della direttiva una tassa che “presenta un collegamento diretto con la prestazione dei servizi (...), dato che i fatti generatori della tassa (...) e dell’IVA coincidono”. L’affermazione è stata, di recente, ripresa dalla Corte di Giustizia Ue nella sentenza 11 giugno 2015, causa C-256/14, Lisboagas.

Intendendo come “fatto generatore” dell’imposta nel sistema dell’IVA comunitaria “il fatto per il quale si realizzano le condizioni di legge necessarie per l’esigibilità dell’imposta”, si ritiene che anche il tributo americano sia da ricomprendere nella base imponibile IVA italiana. D’altro canto, non si può non sostenere che il fatto generatore della “sales tax” (ancorché imposta sulle vendite) sia il medesimo del tributo sul valore aggiunto.
Il principio è noto anche alla Corte di Cassazione che, nella recente sentenza n. 5362 del 7 marzo 2014, ha stabilito che rientrano nella base imponibile IVA di una prestazione di trasporto aereo anche i diritti di imbarco corrisposti dalla compagnia aerea in nome e per conto dei passeggeri. Per tale fattispecie, la Corte ha osservato che “il pagamento dei diritti va ad integrare un elemento di costo direttamente connesso alla prestazione del servizio, indipendentemente dalle diverse modalità prescelte per la sua traslazione sul passeggero, di guisa che esso comunque contribuisce a formare la base imponibile dell’imposta, anche qualora s’intendano configurare i diritti che ne sono oggetto come tributo”.

Le medesime considerazioni sono estensibili all’imposta sulle vendite americana, costituendo l’ammontare esposto in fattura un costo per l’azienda nazionale committente, in quanto onere aggiuntivo che si somma al corrispettivo contrattuale (su una diversa fattispecie, si veda anche “Reverse charge dovuto anche se la fattura presenta l’IVA «estera»” del 26 novembre 2015).

Acquisto della prima casa concessa in leasing con registro all'1,5%

Uno degli emendamenti al Ddl. di stabilità rivede la disciplina impositiva indiretta degli atti di leasing immobiliare

Con uno degli emendamenti al Ddl. di stabilità approvati nella nottata del 14 dicembre, viene modificato il regime impositivo indiretto applicabile ai leasing di immobili abitativi.
Le novità sono così riassumibili:
- viene prevista l’applicazione dell’imposta di registro anche alla cessione, operata dall’utilizzatore, di contratti di leasing aventi ad oggetto immobili abitativi, ancorché assoggettati ad IVA;
- si prevede l’applicazione dell’imposta di registro con l’aliquota ridotta all’1,5%, per gli atti di acquisto, operati da banche e società di leasing, aventi ad oggetto immobili abitativi diversi da quelli accatastati A/1, A/8 o A/9, acquisiti in locazione finanziaria da utilizzatori che soddisfino le condizioni per l’applicazione dell’agevolazione prima casa;
- viene disposto che, agli atti di cessione di contratti di leasing aventi ad oggetto immobili abitativi, anche da costruire e ancorché assoggettati ad IVA, operati dagli utilizzatori, si applichino le aliquote dell’1,5% o del 9% a seconda che, in capo al cessionario, sussistano le condizioni per l’applicazione dell’agevolazione prima casa o meno.

Andando ad esaminare le singole disposizioni, si può rilevare che, inserendo un nuovo periodo nell’art. 1 della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86, il legislatore intende prevedere una specifica aliquota da applicare al trasferimento, nei confronti di banche e intermediari finanziari autorizzati all’esercizio dell’attività di leasing finanziario, avente ad oggetto case di abitazione catastalmente classificate in categorie diverse da A/1, A/8 o A/9, acquisite in locazione finanziaria da utilizzatori che soddisfino le condizioni per l’applicazione dell’agevolazione “prima casa” come prevista dalla Nota II-bis all’art. 1 della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86.
In tal caso – precisa espressamente la norma – nel valutare l’esistenza delle condizioni agevolative, si deve considerare, in luogo dell’acquirente, il soggetto utilizzatore e, in luogo del contratto di acquisto, il contratto di leasing finanziario.
Pertanto, ad esempio, le condizioni relative alla residenza e all’impossidenza di altre abitazioni dovranno essere rese dall’utilizzatore del contratto di leasing nel contratto medesimo.

Per quanto riguarda, invece, la cessione del contratto di leasing, è opportuno ricordare che, con decorrenza dal 1° gennaio 2014, la legge di stabilità per il 2014 (L. 147/2013), modificando l’art. 40 comma 1-bis del DPR 131/86 e inserendo l’art. 8-bis nella Tariffa, parte I, allegata al decreto medesimo, ha disposto che la cessione di contratti di leasing aventi ad oggetto immobili strumentali, anche da costruire, sia soggetta ad imposta di registro (anche ove l’atto risulti soggetto ad IVA) nella misura del 4%.

Cessione del contratto di leasing abitativo con imposta di registro

Intervenendo, ora, sulle medesime disposizioni, il Ddl. di stabilità per il 2016 va a prevedere l’imponibilità ad imposta di registro anche delle cessioni di contratti di leasing aventi ad oggetto immobili abitativi, “anche da costruire ed ancorché assoggettati ad IVA”, di cui all’art. 10 comma 1 n. 8-bis del DPR 131/86.
Le cessioni di questi contratti saranno soggette a due nuove aliquote, previste dall’art. 8-bis della Tariffa, parte I, ovvero:
- l’aliquota dell’1,5% ove il contratto di locazione finanziaria ceduto dall’utilizzatore abbia ad oggetto un immobile abitativo di categoria catastale diversa da A/1, A/8 o A/9, a favore dei soggetti in possesso delle condizioni di “prima casa”;
- l’aliquota del 9% ove il contratto di locazione finanziaria ceduto dall’utilizzatore e avente ad oggetto un immobile abitativo, ancorché da costruire, non soddisfi le condizioni richieste per l’applicazione dell’aliquota dell’1,5% di cui sopra.

Anche in questi casi, come avviene per l’applicazione dell’imposta di registro del 4% alle cessioni di contratti di leasing aventi ad oggetto immobili strumentali, la base imponibile è costituita “corrispettivo pattuito per la cessione aumentato della quota capitale compresa nei canoni ancora da pagare oltre al prezzo di riscatto”.

Si segnala, infine, che, per quanto concerne la decorrenza della nuova disciplina, si prevede che essa trovi applicazione limitata nel tempo: dal 1° gennaio 2016 al 31 dicembre 2020.

 

 

venerdì 11 dicembre 2015

Invio dati per 730 precompilati con sanzioni ridotte

Per il primo anno non si applicano sanzioni in caso di lieve ritardo o di trasmissione errata senza «conseguenze fiscali»

L’invio tardivo o errato delle certificazioni uniche e dei dati relativi agli oneri deducibili e detraibili, utili per la predisposizione della dichiarazione precompilata, non comporta l’applicazione delle previste sanzioni per il primo anno di decorrenza dell’obbligo, sempre che l’errore non determini un’indebita fruizione di deduzioni o detrazioni. È questa l’importante novità contenuta negli emendamenti al disegno di legge di stabilità 2016 presentati ieri dal Governo per  accogliere le richieste dei sostituti d’imposta e dei professionisti.

Ai fini della precompilazione dei modelli 730, il DLgs. 175/2014 ha infatti previsto l’obbligo per i sostituti d’imposta di trasmettere in via telematica all’Agenzia delle Entrate le certificazioni dei redditi corrisposti e delle ritenute operate, entro il 7 marzo dell’anno successivo a quello di riferimento, a partire dalle certificazioni relative al 2014.
Al fine di acquisire i dati relativi agli oneri deducibili e detraibili da inserire nella precompilata, sono stati inoltre disciplinati appositi obblighi di comunicazione telematica dei seguenti oneri corrisposti nell’anno precedente:
- quote di interessi passivi e relativi oneri accessori per mutui in corso;
- premi di assicurazione sulla vita, causa morte e contro gli infortuni;
- contributi previdenziali ed assistenziali;
- spese sanitarie.

Gli obblighi di comunicazione per i soggetti che erogano mutui agrari e fondiari, le imprese assicuratrici e gli enti previdenziali sono decorsi dagli oneri corrisposti nel 2014, con invio dei dati entro il 28 febbraio 2015, secondo quanto stabilito dai tre provvedimenti dell’Agenzia delle Entrate del 16 dicembre 2014.

In relazione alle spese sanitarie, invece, l’obbligo di comunicazione si applica dalle prestazioni erogate nel 2015, con invio dei dati al Sistema Tessera Sanitaria, secondo quanto previsto dal DM 31 luglio 2015 e dal provv. Agenzia delle Entrate 31 luglio 2015 n. 103408.
Il disegno di legge di stabilità 2016 prevede inoltre l’invio dei dati relativi alle spese sanitarie rimborsate, a partire dall’anno d’imposta 2015, da parte degli enti, casse e società di mutuo soccorso aventi esclusivamente fine assistenziale, dei fondi integrativi del Servizio sanitario nazionale e degli altri fondi comunque denominati, sempre entro il 28 febbraio dell’anno successivo.

In caso di omessa, tardiva o errata trasmissione delle certificazioni uniche o dei dati relativi agli oneri deducibili o detraibili, per effetto delle modifiche apportate dal DLgs. 158/2015, si applica una sanzione di 100 euro per ogni comunicazione:
- senza possibilità, in caso di violazioni plurime, di applicare il “cumulo giuridico” ex art. 12 del DLgs. 472/97;
- con un massimo però di 50.000 euro.
Se la comunicazione è correttamente trasmessa entro 60 giorni dalla scadenza, la sanzione è ridotta a un terzo, con un massimo di 20.000 euro.

Nei casi di errata comunicazione dei dati, la sanzione non si applica se la trasmissione dei dati corretti è effettuata:
- entro i 5 giorni successivi alla scadenza;
- ovvero, in caso di segnalazione da parte dell’Agenzia delle Entrate, entro i 5 giorni successivi alla segnalazione stessa.

Tale regime sanzionatorio, pur con i “correttivi” introdotti dal DLgs. 158/2015, è però considerato comunque troppo “pesante”, specie in considerazione delle difficoltà riscontrate in sede di prima applicazione dei nuovi obblighi di comunicazione telematica.
Con l’emendamento in esame, viene quindi stabilito che per le trasmissioni da effettuare nel 2015, relative al 2014, e comunque per quelle effettuate nel primo anno previsto per le trasmissione all’Agenzia delle Entrate dei dati e delle certificazioni uniche utili per la predisposizione della dichiarazione precompilata, non si fa luogo all’applicazione delle suddette sanzioni in caso di:
- “lieve tardività” nella trasmissione dei dati;
- oppure di errata trasmissione degli stessi, “se l’errore non determina un’indebita fruizione di detrazioni o deduzioni nella dichiarazione precompilata”.
Resta ferma l’applicazione delle sanzioni in caso di omessa trasmissione dei dati.

Spese funebri e universitarie semplificate dal 2015

Il disegno di legge di stabilità 2016 prevede inoltre una semplificazione della disciplina relativa alla detraibilità delle:
- spese funebri, stabilendo che la detrazione spetterà in relazione alle spese sostenute in dipendenza della morte di persone, senza più alcuna limitazione relativa a vincoli di coniugio/parentela/affinità;
- spese di frequenza di università non statali, per le quali la detrazione spetterà in misura non superiore a quella stabilita annualmente per ciascuna facoltà universitaria con decreto del Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, da emanarsi entro il 31 dicembre, tenendo conto degli importi medi delle tasse e dei contributi dovuti alle università statali, in modo da avere un riferimento “certo” dell’ammontare detraibile, che superi le difficoltà attualmente esistenti nell’individuare “l’affinità” di un corso in un’università privata e una statale.

Al riguardo, l’emendamento governativo presentato ieri prevede espressamente che le nuove disposizioni si applichino a partire dall’anno d’imposta 2015; per il primo anno di applicazione, il suddetto decreto ministeriale dovrà essere adottato entro il 31 gennaio 2016.
Tali modifiche dovrebbero quindi consentire di raccogliere i dati in esame e di inserirli nei modelli 730/2016 precompilati, come era stato annunciato dalla Direttrice dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi.

 

giovedì 10 dicembre 2015

Aggiornate le check list Assirevi per la revisione legale dei bilanci

Le liste di controllo rappresentano un utile strumento anche per i redattori dei bilanci

Assirevi ha pubblicato sul proprio sito il Quaderno n. 17, dedicato alle liste di controllo a supporto della revisione del bilancio d’esercizio e consolidato. Rispetto alle precedenti edizioni, le check list sono state aggiornate a seguito dell’evoluzione nella normativa e nei principi contabili di riferimento.

Nel dettaglio, in allegato al quaderno vengono presentate le liste di controllo relative a:
- i principi di redazione del bilancio d’esercizio per le società ai cui bilanci sono applicabili le disposizioni degli artt. 2423 e successivi del codice civile;
- i principi di redazione del bilancio consolidato per le società ai cui bilanci sono applicabili le disposizioni del DLgs. 9 aprile 1991 n. 127;
- le informazioni integrative (disclosures) da fornire nelle note ai bilanci redatti secondo i principi contabili internazionali (IAS/IFRS), così come omologati (“endorsed”) dall’Unione europea (UE);
- le informazioni integrative (disclosures) da fornire nelle note ai bilanci redatti secondo i principi contabili internazionali (IAS/IFRS), così come omologati (“endorsed”) dall’Unione europea (UE) - Informativa aggiuntiva da fornire in accordo con norme di legge, regolamenti, delibere e comunicazioni Consob o di altre autorità.

Nelle premesse del documento viene peraltro evidenziato che le liste possono rappresentare un utile strumento di sintesi non solo per i revisori, ma anche per coloro che sono direttamente coinvolti nel processo di redazione del bilancio. Esse agevolano, infatti, l’analisi della conformità dell’informativa di bilancio con le norme ed i principi contabili e, in alcune circostanze, sulla base del giudizio professionale del revisore, l’analisi della corretta applicazione dei criteri e metodi di valutazione delle voci di bilancio. Avendo carattere generale, le check list non necessariamente includono tutti gli aspetti significativi che possono emergere nel corso del lavoro di revisione e potrebbero contenere aspetti non rilevanti in tutte le fattispecie.

Viene infatti chiarito che il loro contenuto e la loro ampiezza nell’ambito della revisione dipendono da vari fattori la cui valutazione compete al soggetto incaricato della revisione il quale provvede ad adattarle opportunamente alle particolarità dell’incarico, sulla base:
- delle dimensioni aziendali;
- della natura dell’attività dell’impresa;
- della valutazione dei rischi di revisione;
- di eventuali modifiche normative, regolamentari e nei principi contabili di riferimento intervenute.

In particolare, la “Lista di controllo dei principi di redazione del bilancio d’esercizio” include i riferimenti legislativi e interpretativi per la redazione del bilancio d’esercizio delle società di capitali che redigono i bilanci in base alle disposizioni del codice civile.
Con riguardo ai documenti interpretativi, essi sono rappresentati dai principi contabili emessi dal CNDCEC nella versione modificata dall’Organismo italiano di contabilità (OIC), la maggior parte dei quali sono stati oggetto di revisione e aggiornamento nel corso del 2014 da parte dell’OIC e quelli emessi direttamente dall’OIC con la nuova numerazione.

Per tale check list è prevista una sezione “generale” dedicata, tra l’altro, alla composizione del bilancio, alle informazioni da fornire nella Nota integrativa e nella Relazione sulla gestione.
Le parti successive del documento sono dedicate alle singole voci di Stato patrimoniale, al Conto economico nel suo complesso e alle imposte, con domande attinenti alle modalità di esposizione e classificazione in bilancio, ai criteri di valutazione e alle informazioni da fornire in Nota integrativa.

Sono inoltre affrontati aspetti particolari che possono interessare la società sottoposta a revisione, quali:
- cambiamenti di principi contabili e di stime contabili, correzioni di errori, eventi straordinari;
- la ristrutturazione e la rinegoziazione dei debiti;
- i certificati verdi;
- le quote di emissione gas ad effetto serra;
- la conversione delle poste in valuta estera.
Sono poi previsti specifici riferimenti al consolidato fiscale, alla trasparenza fiscale e alle operazioni straordinarie di fusione e scissione.

 

Entro fine anno le spese di recupero del patrimonio edilizio da usare nel 2015

La proroga, quasi certa, inserita nel Ddl. di stabilità, permette però di valutare se effettuare i bonifici ancora quest’anno o passare al 2016

Il 31 dicembre rappresenta, per i contribuenti che stanno sostenendo spese di recupero del patrimonio edilizio (art. 16-bis del TUIR), il termine entro cui tali spese possono essere utilizzate a partire dall’anno in corso. La proroga quasi certa, inserita nel Ddl. di stabilità per il 2016, con gli stessi limiti e percentuali, permette infatti a tali soggetti di valutare, per i bonifici di fine anno, se effettuarli ancora nel 2015, e quindi usufruirne, limitatamente alla quota di competenza, già dalla prossima dichiarazione oppure passare all’anno successivo.

Converrà effettuare i bonifici entro fine anno a chi prevede di avere redditi le cui imposte siano in grado di assorbire le conseguenti detrazioni, mentre chi ha redditi assoggettati solo a imposte sostitutive, quali ad esempio le locazioni immobiliari assoggettate a cedolare secca, non avranno convenienza ad anticipare un onere i cui benefici non potranno essere utilizzati.
Infatti la spesa sostenuta genera, limitatamente alla quota di un decimo di quanto speso, una detrazione di imposta pari al 50%. In pratica, per ogni 100 euro di spesa il contribuente ha diritto ogni anno, per un arco temporale di dieci periodi, a una detrazione d’imposta di cinque euro.
La detrazione, come sopra determinata, è riconosciuta in detrazione dall’imposta lorda fino a concorrenza di quest’ultima. L’eventuale sua eccedenza rispetto all’imposta lorda va perduta e non origina alcun diritto al rimborso, al riporto agli anni futuri, ovvero ancora alla compensazione ex art. 17 del DLgs. 241/97.

Come chiarito dalla circ. n. 95/2000 (§ 2.1.2), il contribuente che, pur avendo ottemperato a tutti gli obblighi formali previsti al fine di fruire della detrazione, non se ne sia avvalso con riferimento a una determinata rata, in quanto ha omesso di indicare in dichiarazione dei redditi l’importo della spesa e il numero delle rate prescelto, ovvero non ha presentato la dichiarazione (ad esempio perché esonerato), può tuttavia usufruire dell’agevolazione a partire dalle rate successive.
Il pagamento delle spese deve avvenire, con la sola esclusione degli oneri di urbanizzazione e dei diritti, oneri e imposte comunali, esclusivamente tramite bonifico bancario da cui risulti la causale del versamento, il codice fiscale del beneficiario della detrazione e il numero di partita IVA o il codice fiscale del soggetto a favore del quale è effettuato il bonifico.

Se il pagamento delle spese è materialmente effettuato dalla società finanziaria che ha concesso un finanziamento al contribuente, quest’ultimo, in base a quanto affermato dall’Agenzia delle Entrate nella circ. n. 11/2014 (§4.4), può fruire della detrazione per gli interventi in esame a condizione che la società che eroga il finanziamento paghi il corrispettivo al soggetto fornitore con un bonifico bancario o postale recante tutti i dati previsti dalle disposizioni di riferimento (causale del versamento con indicazione degli estremi della norma agevolativa, codice fiscale del soggetto per conto del quale è eseguito il pagamento, numero di partita IVA del soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato) in modo da consentire alle banche o a Poste italiane spa di operare correttamente la ritenuta ex art. 25 del DL 78/2010 e il contribuente abbia copia della ricevuta del bonifico.
L’anno di sostenimento della spesa sarà quello di effettuazione del bonifico da parte della finanziaria al fornitore della prestazione.
In merito alla data del pagamento occorre fare riferimento alla data dell’addebito della somma sul proprio conto corrente, essendo questo il momento in cui il contribuente perde la disponibilità della somma. Non rilevano invece né la “data valuta”, né il momento in cui viene impartito l’ordine di addebito.

Infine, l’art. 25 del DL 78/2010 ha introdotto, a partire dal 1° luglio 2010, una ritenuta, attualmente pari all’8%, sui pagamenti effettuati con bonifico bancario, da effettuare a carico della banca che riceve il bonifico per conto del beneficiario. Tale ritenuta, secondo quanto stabilito dall’Agenzia delle Entrate con la circ. n. 40/2010, sostituisce sia le ritenute dei professionisti che quelle per gli appalti ai condominio. Pertanto tali soggetti, al fine di evitare che il committente operi anch’esso la ritenuta d’acconto, dovrebbero evidenziare in calce alla fattura stessa tale situazione.

Poiché l’importo del bonifico che viene ordinato dal contribuente è comprensivo del corrispettivo per la prestazione del servizio o per la cessione dei beni e della relativa IVA, la cui misura può variare a seconda della tipologia di spesa cui il bonifico si riferisce, la circ. n. 40/2010 ha chiarito che dall’importo del bonifico deve essere scomputata l’IVA con l’aliquota del 20%, indipendentemente dall’aliquota effettivamente applicata, e sulla somma così determinata occorre calcolare la ritenuta dell’8%.
Dato che, nel corso degli anni, l’aliquota ordinaria IVA è cresciuta dal 20% al 21% e, infine, al 22%, risulta che, in assenza di chiarimenti, alcuni istituti bancari applichino la ritenuta scorporando l’IVA al 20% e altri invece al 22%.