sabato 31 gennaio 2015

split payment

Preoccupazione sul piano della sua compatibilità con il diritto comunitario e incertezze sull’indicazione delle P.A. destinatarie della disposizione

Sono stati già analizzati alcuni dei dubbi che stanno accompagnando le aziende davanti alla novità legislativa dello split payment, nonché accorati appelli affinché il legislatore possa tornare sui propri passi.

Sulla stessa falsariga si evidenziano sia una preoccupazione che un ulteriore punto grigio.

La prima risiede nella reazione che potrebbe avere, rispetto all’introdotta novità, il Consiglio dell’Unione europea.

Come si ricorderà, la versione originaria del disegno di legge di stabilità 2015 disponeva che l’efficacia della misura fosse subordinata al rilascio di apposita autorizzazione, da parte del Consiglio dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 395 della direttiva 2006/112/CE. Un emendamento predisposto dal Governo ed introdotto nel corso della discussione al Senato ne ha anticipato l’efficacia, stabilendo la sua applicabilità per le operazioni per le quali l’IVA si è resa esigibile a partire dal 1º gennaio 2015, indipendentemente dall’avvenuto rilascio dell’autorizzazione comunitaria.

La decisione governativa appare particolarmente coraggiosa, suscitando una forte preoccupazione sul piano della sua compatibilità con il diritto comunitario. Basti pensare che, a quanto consta, l’Italia pare essere il primo Paese dell’Unione a prevedere una misura del genere. Un sintomo in tal senso può esser visto nel fatto che il Governo si sia già blindato, qualora l’autorizzazione comunitaria non dovesse pervenire entro il 30 giugno 2015, nel coprire la perdita di gettito attesa con lo split payment attraverso l’ormai consueto aumento delle accise sui carburanti. Sulle aziende aleggia così uno spettro, vale a dire la possibilità che gli sforzi attualmente in atto con le software house per implementare i sistemi contabili/amministrativi (considerando anche le relative spese) risultino vani in caso di diniego a livello comunitario.

L’ulteriore punto grigio, che avrebbe meritato un maggior sforzo legislativo, attiene all’indicazione di quali sono i soggetti della Pubblica Amministrazione destinatari della nuova disposizione.

Il novellato art. 17-ter, comma 1 del DPR n. 633/1972 fa riferimento alle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nei confronti “dello Stato, degli organi dello Stato ancorché dotati di personalità giuridica, degli enti pubblici territoriali e dei consorzi tra essi costituiti ai sensi dell’articolo 31 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, degli istituti universitari, delle aziende sanitarie locali, degli enti ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici di assistenza e beneficenza e di quelli di previdenza”.

L’elenco riecheggia quanto già presente nella normativa IVA sull’esigibilità differita, risultando troppo indefinito e lasciando il campo a troppi dubbi interpretativi. Prima di tutto si tratta di stabilire se l’elencazione effettuata nel nuovo art. 17-ter sia tassativa o possa invece essere oggetto di un’interpretazione estensiva. In materia di esigibilità differita, la prassi amministrativa

esistente (risoluzione n. 99 del 30 luglio 2004; risoluzione n. 271 del 28 settembre 2007) ha imposto un’interpretazione “stretta”, ritenendo l’elencazione contenuta nella norma come tassativa.

In secondo luogo, non ci si è accorti che l’elenco contenuto nell’art. 6, comma 5 del DPR n. 633 e fatto proprio dal legislatore nello split payment non è stato mai aggiornato rispetto all’evoluzione della normativa sugli enti pubblici, cosicché non è agevole ricondurre alcune tipologie di enti pubblici attualmente esistenti nell’elencazione normativa (ad esempio aziende pubbliche di servizi alla persona e aziende speciali).

Basti pensare che l’art. 6 è stato introdotto nel 1973 rimandando come soggetti di riferimento “allo Stato, agli enti pubblici territoriali e agli enti ospedalieri, di assistenza e beneficenza”, per poi giungere alla sua attuale elencazione nel 1998, prima dell’entrata in vigore, tra i tanti, del Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (DLgs. 18 agosto 2000 n. 267) che ha apportato alcune modificazioni alla divisione territoriale dello Stato. In materia di split payment sarebbe stato più opportuno riprodurre la formulazione legislativa utilizzata in occasione dell’introduzione della fatturazione elettronica verso la pubblica amministrazione, rimandando così l’individuazione delle amministrazioni pubbliche all’elenco annuale pubblicato dall’ISTAT.

È pertanto quanto mai opportuno che un’indicazione delle amministrazioni destinatarie dello split payment sia contenuta nel relativo decreto di attuazione, in fase di perfezionamento come annunciato dal comunicato stampa del Ministero dell’Economia e delle finanze lo scorso 9 gennaio. (eutekne)

sabato 17 gennaio 2015

Collaborazione con il medesimo committente: limiti

la collaborazione con lo stesso committente ha una durata complessiva superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi;
il corrispettivo derivante dalla collaborazione, anche se fatturato a più soggetti riconducibili allo stesso centro d'imputazione di interessi, costituisce più dell'80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nell'arco di due anni solari consecutivi;
il collaboratore dispone di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente.
Soffermandosi alle prime due ipotesi, bisognerà verificare - ai fini della genuinità della prestazione autonoma - che nel biennio 2013-2014, la durata del rapporto non abbia sforato gli otto mesi per ciascun anno e/o che il corrispettivo percepito non sia stato superiore all'80% dei compensi annui del lavoratore.
Infatti – come ha chiarito la circolare del ministero del Lavoro 32/2012 – con riferimento alla durata, l'arco temporale degli otto mesi va rapportato a ciascun anno civile. Per quanto riguarda invece il parametro economico, la disposizione prende come base un arco temporale di due anni solari consecutivi, ossia due periodi di 365 giorni (vanno computati i corrispettivi comunque fatturati, indipendentemente dall'effettivo incasso delle somme).
Peraltro, su questo punto, il ministero ha specificato che, se si fa valere il criterio dell'anno civile, adoperato in relazione alla durata superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi, lo stesso attrae anche il criterio reddituale.
In caso di mancato rispetto degli indici (2 su 3) gli ispettori, senza compiere ulteriori accertamenti, potranno ascrivere la collaborazione a partita Iva nell'alveo delle collaborazioni coordinate e continuative (salvo prova contraria da parte del committente).
Si tratta di una presunzione «semplice», che comporta l'inversione dell'onere della prova a carico del committente. Se questi, però, non è in grado di dimostrare l'esistenza di una collaborazione a progetto così come definita dall'articolo 67 della legge Biagi (Dlgs 276/2003), si presume la natura subordinata del rapporto, a tempo indeterminato e fin dalla sua costituzione.
Le eccezioni
Se il perimetro che delimita la monocommittenza è stato tracciato con questi indici, la legge 92/2012 ha lasciato aperta qualche via d'uscita.
Ci sono infatti due esimenti – che si devono realizzare congiuntamente – in virtù delle quali non scatta la presunzione di co.co.pro:
quando il lavoratore possiede competenze teoriche elevate o particolari capacità tecnico-pratiche (la circolare 32 fornisce alcuni esempi);
quando il lavoratore è titolare di un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi alla gestione Inps commercianti (19.395 euro per il 2014, per il 2015 il limite è da definire).
Restano al riparo dalle modifiche della legge 92/2012 le prestazioni lavorative svolte nell'esercizio di attività professionali per le quali l'ordinamento richiede l'iscrizione a un Ordine professionale o a registri, sulle quali è intervenuto il Dm del 20 dicembre 2012.

CFC

La verifica iniziata prima sulla capogruppo era poi proseguita nei confronti della controllata, alla presenza di un membro del board o del Cfc (Credit and Finance Committe) ritenuto effettivo centro di gestione; alla fine il Pvc era stato notificato al direttore generale della società estera residente oltreconfine. A nulla è servita anche l'istanza di procedura amichevole instaurata successivamente ai sensi dell'articolo 24 del trattato delle doppie imposizioni, prevista dall'accordo bilaterale dei due Paesi. Nel corso dell'ispezione era emerso che nel periodo fra il 2005 e 2009 la funzione di direzione e controllo della società estera era riconducibile alla capogruppo, dove risultava operante il Cfc organo della società estera esercente in concreto la direzione e il controllo effettivo della società e composto da tre dirigenti della banca (di cui due residenti in Italia).
Per l'Agenzia sussistevano indizi precisi e concordanti di esterovestizione: il Cfc era collegato all'effettivo organo gestionale con lo scopo di esercitare l'attività quotidiana e la gestione della società e del consiglio di amministrazione; per alcune operazioni relative a pagamenti o a contratti era richiesta la firma di un membro del Cfc e non del consiglio di amministrazione; tutti i membri del Cfc appartenevano alla banca e due di questi erano residenti in Italia.
Il giudice ha accolto il ricorso della banca estera e ha affermato che il lavoro veniva svolto parte in Italia e parte oltreconfine. Alla luce del certificato di residenza rilasciato dal fisco del Paese dove si riuniva il Cda, è stata data rilevanza significativa ai fini di prova dell'insussistenza di un attendibile collegamento con l'Italia, tenendo conto che all'estero erano state pagate tutte le tasse.
A nulla importa che la direzione e il coordinamento avvenissero tramite il Cfc , organo ritenuto deputato alla gestione di alcuni affari della banca, ma non all'amministrazione vera e propria della capogruppo. Inoltre, i membri di tale comitato erano dirigenti della banca italiana, ma non consiglieri di quest'ultima.
In tema di libertà di stabilimento, dunque, non si configura abuso del diritto se viene documentato che la costituzione di una società all'estero non crea artificio finalizzato a eludere la normativa dello Stato interessato.

split payment

Le fatture emesse durante il 2014 da parte dei fornitori a carico delle Pa dovranno essere tenute distinte da quelle emesse dal 2015, in quanto sono sempre escluse dalla disciplina dello split payment anche qualora vengano pagate e/o registrate a partire dal 2015.
Interrogativi possono porsi in merito all'impostazione contabile da realizzare anche in ragione delle differenze che ci sono fra Pa in regime di contabilità finanziaria e Pa in regime di contabilità civilistica.
Le Pa in regime di contabilità civilistica si troveranno a operare così:
per le fatture di acquisto necessarie ai fini istituzionali, la rilevazione del costo per natura dovrà comprendere anche Iva, che non è detraibile per carenza del presupposto soggettivo Iva, che verrà pagata direttamente all'erario, mentre il debito in stato patrimoniale dovrà essere sdoppiato fra fornitore (per l'ammontare imponibile) e erario (per l'ammontare dell'Iva) o con un automatismo o con una rilevazione di giroconto;
per fatture di acquisto relative all'attività commerciale, la rilevazione del costo per natura sarà limitata all'imponibile e alla parte di Iva che non detraibile per presenza di specifiche disposizioni in materia di limitazione oggettiva della detraibilità Iva; la rilevazione dell'Iva detraibile acquisti rimarrà nel conto di contabilità Iva c/acquisti per essere detratta dal debito Iva derivante dalle attività commerciali nel conto Iva c/vendite; anche in questo caso il debito in stato patrimoniale dovrà essere sdoppiato fra fornitore (per l'ammontare imponibile) e erario (per l'ammontare dell'Iva);
su tutte le fatture di acquisto (istituzionali e commerciali indifferentemente), con automatismo o con giroconto contabile, è necessario procedere alla chiusura dal singolo fornitore con giroconto in contabilità dell'ammontare dell'Iva in un conto debiti dedicato, ad esempio "Debiti Iva split payment"; su tale posta verrà emesso uno o più ordinativi (come anticipato dal comunicato del Mef) per il pagamento dell'Iva all'erario.
In merito ai registri è presto per poterlo dire con certezza (è necessario attendere il decreto Mef), ma potrebbe essere utile una gestione ad hoc con sezionali. Salvo non venga richiesto dal decreto Mef, non appare di nessuna necessità specifica la tenuta di un registro specifico per la gestione Iva split payment, anche se potrebbe risultare utile.
Per quanto riguarda la gestione Iva dell'attività commerciale e delle attività istituzionali derivanti da acquisti esteri (intra ed extra-ue), la novità split payment non dovrebbe comportare alcuna variazione per le Pa, in quanto non ha alcun impatto.
Quindi la gestione del debito Iva da split payment dovrebbe rimanere autonoma e ammettere, in naturale concomitanza, la gestione dei normali registri Iva commerciale (articoli. 23, 24 e 25 del Dpr 633/1972), nonché registro acquisti intra-Ue beni e servizi esteri (articolo 47 del Dl 331/1993).
In sostanza l'Iva rilevabile dalle fatture emesse dai fornitori che si riferiscono all'attività commerciale resta detraibile sulla base delle ordinarie dinamiche e impostazioni già presenti in ciascuna Pa. Si realizzerà però l'esigibilità dell'Iva, agli effetti della detraibilità, all'esito dell'avvenuto pagamento della stessa secondo il regime split payment per gli acquisti che vi siano soggetti.
Quindi in contabilità è ragionevole pensare che il debito Iva, per le Pa in contabilità civilistica, verrà rilevato in tre diversi conti del passivo patrimoniale in ragione del diverso riferimento di provenienza:
Iva credito/debito per Iva commerciale (erario c/Iva), sulla base dell'Iva esposta e pagata, sia per gli acquisti con esigibilità differita, sia per quelli ad esigibilità immediata (che lo divengono per scelta della Pa o perché sono estranei allo split payment);
Iva a debito per gli acquisti di beni e servizi intra e acquisti servizi extra Ue, relativi ad attività istituzionale, in cui sussiste la posizione di reverse charge e debitore d'imposta (non rilevano ai fini split payment);
Iva a debito da split payment alimentata dall'Iva sulle fatture, commerciali e/o istituzionali, che vi rientrano.

liquidazione societaria

Le nuove disposizioni introdotte dal Dlgs 175/2014, entrato il vigore il 13 dicembre, in materia di liquidazione societaria sono state commentate dalla circolare 31/E del 30 dicembre 2014, il cui passaggio principale consiste nell'affermare la retroattività delle nuove disposizioni in materia di effetto posticipato nei confronti del fisco dell'estinzione della società.
Secondo le Entrate, infatti, l'effetto posticipato di cinque anni dell'estinzione si applica anche alle società che alla data del 13 dicembre 2014 erano già state cancellate dal Registro imprese. Il nuovo quadro normativo si incentra sul concetto di "colpa" nel comportamento del liquidatore, quindi questa è la chiave per decifrare il rischio personale di quest'ultimo sia in relazione alle passività fiscali sia per quelle di natura civilistica.
Il nuovo articolo 36 del Dpr 602/73 stabilisce ora che il liquidatore risponde in proprio dei debiti fiscali (in genere, quindi, compresi Iva e Irap non più solo per Ires come si aveva nella stesura ante Dlgs 175/14) laddove egli abbia soddisfatto con il ricavato della liquidazione debiti di grado inferiore rispetto a quello tributario. Il classico esempio è rappresentato dalla ipotesi di pagamento di un creditore non privilegiato (fornitore di merce o prestatore di servizi non professionista né artigiano), mentre non è stato saldato un debito divenuto definitivo di carattere tributario. In tal caso l'Erario può pretendere dal liquidatore il pagamento del debito tributario, fermo restando il tetto rappresentato dal credito d'imposta che avrebbe trovato capienza in sede di graduazione dei crediti. A differenza del passato, dal 13 dicembre 2014 è il liquidatore a dover provare di aver soddisfatto i debiti societari rispettando l'ordine dei privilegi, mentre in precedenza l'onere di provare il comportamento colposo del liquidatore era posto a carico del fisco, il che costituiva spesso un elemento che rendeva nulli gli accertamenti come rilevato dalla Cassazione, sentenza 12149/2010.
Pertanto la " colpa" del liquidatore, che innesca la sua responsabilità personale, è non aver rispettato l'ordine dei privilegi pagando creditori meno meritevoli del credito fiscale. Ma la crescente delicatezza del ruolo del liquidatore è comprensibile solo analizzando anche l'altra modifica del Dlgs 175/2014 che tocca l'efficacia della cancellazione della società dal Registro imprese nei confronti del fisco. L'estinzione della società ora assume efficacia nei confronti dell'Erario non istantaneamente con la cancellazione al Registro imprese, bensì decorsi cinque anni dallo stesso adempimento. In questo lasso temporale l'agenzia delle Entrate potrebbe notificare contestazioni alla società, relative a infrazioni di cui, magari, il liquidatore non aveva alcuna consapevolezza al momento della cancellazione della società. Ora se egli avrà corrisposto somme a creditori non privilegiati e il debito fiscale diventasse definitivo, si manifesterebbe proprio la situazione sopra descritta: aver corrisposto somme a creditori di grado inferiore rispetto al Fisco, il che espone il liquidatore alla responsabilità personale.
Questa situazione pone il liquidatore di fronte a un bivio alquanto scomodo: se egli soddisfa debiti non privilegiati rischia di dover rispondere in proprio nel caso in cui successivamente il fisco avanzi pretese su debiti tributari relativi a violazioni commesse prima della cancellazione della società ma notificati dopo il medesimo momento; se adottando un atteggiamento prudente non soddisfa crediti non privilegiati si trova in difficoltà a chiudere la liquidazione, posto che dovrebbe eseguire un accantonamento per spese future la cui effettività è di elevata incertezza.
Da ultimo va sottolineato che l'agenzia delle Entrate, per accertare in capo al liquidatore la contestazione per tributi non versati, deve notificare un accertamento con doppia motivazione: da una parte, spiegare perché si rende dovuto il debito tributario; dall'altra, segnalare perché lo stesso debito gravi sul liquidatore. Ciò, si ritiene, anche alla luce della novità appena introdotta che inverte l'onere della prova: il liquidatore dovrà sì provare di non aver soddisfatto crediti di grado inferiore a quelli fiscali, ma resta fermo che tale comportamento deve essere citato nell'accertamento poiché è la condizione necessaria per il trasferimento del debito tributario in capo al liquidatore.